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Bando
Musica Jazz
(D.M. 26 marzo 2021)
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Artisti
Enrico
Rava
Enrico
Rava, nato a Trieste nel
1939, è indubbiamente il jazzista
italiano più noto e apprezzato a
livello internazionale. Da sempre
impegnato nelle esperienze più
diverse e stimolanti, è apparso
sulla scena jazzistica a metà
degli anni Sessanta, imponendosi
rapidamente come uno dei più
validi solisti del jazz europeo.
La sua schiettezza umana e
artistica lo pone al di fuori di
ogni schema e ne fa un musicista
rigoroso ma incurante delle
convenzioni. La sua poetica
immediatamente riconoscibile, la
sua sonorità lirica e struggente,
sempre sorretta da una
stupefacente freschezza
d’ispirazione, risaltano
fortemente in tutte le sue
avventure musicali.
In cinquant’anni di carriera, il
trombettista, icornista e
compositore ha all’attivo un
centinaio di incisioni.
Ispirandosi dapprincipio a Miles
Davis e Chet Baker si è
avvicinato negli anni Sessanta
all’avanguardia (trasferendosi a
New York per una decina d’anni),
registrando nel 1972 Il
giro del giorno in 80 mondi,
ed entrando in contatto con
Roswell Rudd, Cecil Taylor, Carla
Bley e Charlie Haden. Altre sue
collaborazioni di riferimento in
questo primo periodo sono quelle
con Gato Barbieri, Don Cherry, Mal
Waldron e Steve Lacy.
Stilisticamente col tempo si
distacca dai modi dell’avanguardia
per mettere a punto una sorta di
personalissimo mainstream. Si
susseguono numerose collaborazioni
al anco dei musicisti più
prestigiosi, italiani, europei e
americani, e la costituzione di
gruppi a proprio nome, che hanno
sempre avuto il merito di scoprire
talenti fuori dell’ordinario
(Stefano Bollani, Gianluca
Petrella, Roberto Cecchetto). Il
suo stile si è stabilizzato in un
sistema compatto di moduli
diversamente aggregati, con un
oscillamento (sempre relativo e
interconnesso) fra deja
vu davisiani e riverberi
bakeriani, e un’inconfondibile
vocazione melodica.
Mauro Ottolini
Nato
a Bussolengo (VR) nel 1972, il
trombonista Mauro
Ottolini è uno dei
musicisti più importanti del
nuovo jazz italiano. Lasciata
l’orchestra dell’Arena di Verona
per inseguire il suo vero amore,
il jazz, si è velocemente imposto
come leader fantasioso e
sorprendente. Alla sua ascesa
hanno contribuito altri grandi
musicisti, chiamandolo
regolarmente nelle loro
formazioni: Enrico Rava, Franco
D’Andrea, Gianluca Petrella,
Francesco Bearzatti, Daniele
D’Agaro e anche il cantautore
Vinicio Capossela. Da anni
Ottolini esprime il proprio
talento eclettico come compositore
e come arrangiatore non solo per i
progetti a suo nome, ma anche per
importanti formazioni jazz, rock,
pop e avant-garde. Si
è ritagliato un posto al
anco dei big della canzone
italiana (Negramaro, Lucio Dalla,
Antonella Ruggiero, Vinicio
Capossela, Malika Ayane, Roy Paci,
Karima, ma pure Luciano
Pavarotti).
Oggi suona assiduamente con Franco
D’Andrea (trio e sestetto), ma è
soprattutto il leader di alcune
delle più sorprendenti formazioni
della musica creativa italiana,
come i Licaones (con Francesco
Bearzatti), gli Smashing Triad(s),
i Lato Latino, l’orchestra
Ottovolante, i Separatisti Bassi e
i Sousaphonix, il gruppo che più
ha contribuito alla sua fama: con
questo ampio organico ha vinto il
Top Jazz nel 2012 e ha sfornato
una serie di dischi memorabili (The
Sky Above Braddock, Bix Factor,
Musica per una società senza
pensieri, Seven Chances).
Il più recente progetto, che vede
il nucleo dei Suosaphonix a
anco di un’orchestra sinfonica, è
un omaggio alle canzoni di Luigi
Tenco: “Tenco: come ti vedono gli
altri” è nato su richiesta
proprio del Club Tenco, che con
esso ha voluto celebrare il 50°
anniversario della morte del
cantautore. Uscito su disco, è
stato uno dei bestsellers
del 2017. Al successo eclatante ha
contribuito l’impressionante parterre
di cantanti convocato da Ottolini:
Gino Paoli, Petra Magoni, Daniele
Silvestri, Roy Paci, Alberto
Fortis, Rossana Casale, Renzo
Rubino, Karima, Bocephus King,
Edda, Kento, Vanessa Tagliabue
Yorke, Vincenzo Vasi, e, nei live,
anche Giuliano Sangiorgi.
Tommaso Vittorini
Nato a
Roma, ma residente da molti anni a
New York, Tommaso Vittorini ha
iniziato la carriera giovanissimo,
negli anni Settanta, a fianco di
Massimo Urbani, Maurizio Giammarco,
Enrico Pieranunzi, Danilo Rea,
Enrico Rava. Alla fine del decennio
il novero delle sue collaborazioni
si è esteso a livello
internazionale, con personalità
quali Lester Bowie, Kenny Wheeler,
Roswell Rudd, Steve Lacy. Dotato di
fine senso dell’umorismo e di una
profonda conoscenza della cultura
italiana (forse ereditati dai nonni,
Camillo Mastrocinque ed Elio
Vittorini), assieme a Mario Schiano
inventò una sorta di jazz- varietà
che non trova termini di paragone
nella storia di questa musica.
Come
band
leader ha dato vita a numerose
formazioni, sia in Italia che negli
USA: la Living Concert Big Band, il
Grande Elenco Musicisti (con
Giancarlo Schiaffini, Antonello
Salis, Roberto Gatto, Rita
Marcotulli), la Banda della Scuola
Popolare di Musica di Testaccio, la
Big O Orchestra, band tutta al
femminile basata a New York.
Come arrangiatore ha lavorato con
Paolo Conte (per Appunti
di Viaggio), Claudio
Baglioni, Gianni Morandi,
Almamegretta, Vinicio Capossela e,
fuori dall’Italia, con Dionne
Warwick e Chaka Khan.
Vittorini è attivo anche come
direttore di orchestre sinfoniche,
nonché in campo cinematografico e
televisivo come autore di colonne
sonore (per Lina Wertmüller e
Roberto Benigni, tra gli altri) e di
sigle (TG1, TVSette, TG Sport...)
oltre che come attore (Profondo
rosso di Dario Argento, Sogni
d’oro di Nanni Moretti).
Barbara
Casini
Barbara Casini,
nata nel 1954 a Firenze, dove
tuttora risiede, ha mostrato sin da
ragazza la sua predilezione per la
Musica Popolare Brasiliana, di cui è
profonda conoscitrice e sicuramente
la massima interprete italiana: il
Brasile è la sua seconda patria, vi
ha viaggiato e vissuto a lungo,
penetrandone profondamente la
cultura. Al repertorio della grande
canzone brasiliana ha dedicato
diversi album, tra i quali: per la
Philology, Você e Eu con
Stefano Bollani e Phil Woods (2001),
Outra Vez con Lee Konitz
(2002), Uma Voz Para in
tributo a Caetano Veloso e Anos
Dourados a Tom Jobim (2003), Palavra
Prima a Chico Buarque (2006),
Nordestina, rivisitazione del
forró brasiliano (2007), Uma
Mulher con Banda Dupla (2015),
Barato total, interamente
dedicato alla musica di Gilberto Gil
(2011); per Via Veneto Jazz, Uragano
Elis, ambizioso e appassionato
omaggio a Elis Regina (2004), Terras
in duo con Roberto Taufic, un
omaggio alla musica del Nordest del
Brasile (2016); per la Mille Italy Agora
tá, versione per orchestra
jazz dell’omaggio a Elis Regina, con
gli arrangiamenti di Silvestri
(2012); per la Encore Records Viva
eu, omaggio all’amico
compositore pernambucano Novelli,
con la presenza di Toninho Horta
come co-leader e la partecipazione
di ospiti prestigiosi quali Joyce
Moreno, Chico Buarque, Edu Lobo e
molti altri (2020). Ha collaborato
con importanti jazzisti italiani,
tra cui Enrico Rava, Stefano
Bollani, Fabrizio Bosso, Luigi
Bonafede, Giovanni Tommaso, Roberto
Gatto, Paolo Silvestri.
Tra le incisioni a suo nome non
dedicate al Brasile, ricordiamo Vento,
assieme a Rava, Bollani e
l’Accademia Filarmonica della Scala,
con arrangiamenti e direzione di
Silvestri (1999, Label Bleu) e Formidable!
in omaggio allo chansonnier Charles
Trenet, realizzato con Bosso (2014,
Pholology).
È stata più volte invitata a Rio e a
São Paulo dove si è esibita con
grande successo al fianco di
musicisti brasiliani, primo fra
tutti lo straordinario compositore e
chitarrista Guinga. Barbara si
dedica anche alla traduzione di
canzoni e di romanzi e ha portato in
giro diversi lavori teatrali, fra
cui “Parola prima”, basato sulle
canzoni di Chico Buarque de
Hollanda, e “Reis de Janeiro. Musica
sacra in Brasile, tra Africa ed
Europa”, entrambi con l’attrice e
cantante Monica Demuru. Ha scritto
un libro di conversazioni con i
grandi compositori popolari
brasiliani (Chico Buarque, Edu Lobo,
Gilberto Gil, Ivan Lins e molti
altri), uscito nel novembre 2012 per
Angelica Editore.
Alien Dee
Pioniere del
beatboxing, Alien
Dee (al secolo Davide
Giuseppe Di Paola, torinese di
nascita, residente a Catania e
domiciliato a Roma, classe 1981) ne
è tra i principali esponenti a
livello internazionale.
Perfezionista nello sviluppo della
tecnica imitativa degli strumenti,
legato all’estetica jazz per quanto
riguarda le sonorità e la pratica
dell’improvvisazione, Alien Dee ha
iniziato a ‘suonare senza strumento’
nel 2001, allenandosi in questa
particolare disciplina, sorta
all’interno della cultura hip hop
per far fronte alla necessità di
avere sempre musica a portata di
mano quando si tratta di ballare in
strada (breakdance) o quando si
improvvisano rime (rap). Così, in
assenza di strumenti e anche di
mezzi per riprodurre musica
pre-registrata, il beatboxer
utilizza la voce e il proprio corpo
per creare ritmi e suoni, in
particolar modo imitando il beat
delle
percussioni e il fraseggio degli
strumenti melodici.
Francesco
Martinelli
Nato a
Pisa nel 1954, Francesco
Martinelli è impegnato fin
dagli anni Settanta nella diffusione
della cultura jazzistica in Italia
come organizzatore di concerti,
giornalista, saggista e traduttore,
insegnante e conferenziere. Ha
collaborato negli anni Settanta
all’organizzazione delle memorabili
Rassegne Internazionali del Jazz di
Pisa, e in seguito ha promosso nella
sua città concerti e rassegne tra
cui La Nuova Onda, l’Instabile’s
Festival, An Insolent Noise. Come
giornalista ha collaborato a
Musiche, Musica Jazz e Il Giornale
della Musica; attualmente scrive di
musiche tradizionali per la rivista
inglese Songlines. Ha pubblicato le
discografie di Anthony Braxton, Evan
Parker, Joelle Léandre e Mario
Schiano. Ha tradotto una decina di
libri dall’inglese all’italiano,
collaborando con Arcana, Il
Saggiatore, EDT e con la pisana ETS
per la collana Sonografie la cui più
recente uscita è un volume su Albert
Ayler. Insegna Storia del Jazz
presso l’Istituto Musicale Mascagni
di Livorno e la Siena Jazz
University; a Siena Jazz dirige
anche il Centro Studi sul Jazz
“Arrigo Polillo”, la più ampia
raccolta di libri, riviste e
registrazioni di jazz in Italia. La
collana di testi jazzistici creata
in collaborazione da EDT e Siena
Jazz è da lui diretta. Ha insegnato
per diversi anni a Istanbul alla
Bilgi University e collabora tuttora
con la Fondazione per la Cultura di
Smirne per l’organizzazione del
Festival del Jazz Europeo e la
gestione del museo degli strumenti
musicali tradizionali dell’Anatolia.
Ha
coordinato il vasto progetto
internazionale promosso da Europe
Jazz Network che ha portato nel
Settembre 2018 alla pubblicazione di
“The History of Jazz in Europe” da
parte della casa editrice inglese
Equinox.
Miles Davis
Nonostante
il luogo comune critico racconti il
contrario, in realtà Miles Davis
(Alton, 26 maggio 1926 - Santa
Monica, 28 settembre 1991) fu uomo
di sintesi, piuttosto che di
intuizioni. La sua presenza
attraversa la storia del jazz
dell’ultimo mezzo secolo senza
determinare le grandi svolte del
linguaggio, bensì legittimandole e
rendendole più compiute,
intellegibili, sistematizzate. La
nascita del be-bop deve assai di più
a Charlie Parker, quella del cool a
Gil Evans, quella del jazz-rock a
John McLaughlin. A tutti questi
fermenti intellettuali, però, Miles
dette ordine, ponendo le pietre
miliari che chiariscono l’itinerario
(Milestones, come titolava un
suo disco del 1947). E vi aggiunse
il suo “proprio dono”: la parsimonia
di note e la capacità di dar
significato a ogni singola nota, e a
ogni silenzio; la chiarezza del
disegno culturale; l’abilità di far
vivere nel linguaggio
contemporaneo la poesia arcaica e
drammatica del blues; la maestria
dell’understatement; la pazienza di
scegliere e allevare talenti acerbi.
E quanti ne sono sfilati nei suoi
gruppi: da Keith Jarrett a Sonny
Rollins, da John Coltrane a Herbie
Hancock, da Jack DeJohnette a
Cannonball Adderley, Chick Corea,
Philly Joe Jones, J.J. Johnson,
Wayne Shorter, Horace Silver, Bill
Evans, Red Garland, Dave Holland,
Max Roach, David Liebman (e
certamente dall’elenco restano
esclusi parecchi capiscuola).
Questo, sul piano artistico, è stato
Miles Davis: un maestro e un poeta,
rispetto alla storia della musica
del Novecento, ben oltre il jazz.
Nessun altro musicista è mai stato
amato con altrettanta passione, ma
con Davis non c’è stata mai
indulgenza, forse perché da lui ci
si aspettava sempre di più, o
comunque qualcos’altro da ciò che in
quel momento voleva dare. Gli
illustri critici Brian Case e Stan
Britt hanno scritto in
un’enciclopedia del jazz che “la
produzione davisiana successiva a In
a silent way (1969) non è
degna di interesse per
l’appassionato di jazz”. Vero? Può
darsi. Il punto è che era assai
degna di interesse per il resto del
mondo... Ecco, la forza di Miles
Davis, in realtà, è stata quella di
aver lanciato un ponte fra il ghetto
della cultura nero-americana e
l’universo circostante, di aver reso
accessibile a tutti, senza
snaturarne la sostanza, ciò che era
fino ad allora ostico, esoterico,
elitario. Da questa posizione, che
lo ha catapultato nello star
system, unico fra i jazzisti
del dopoguerra, Davis ha tratto
tutti i vantaggi possibili. E per di
più li ha ostentati senza alcun
pudore: macchine fuoriserie, abiti
firmati, guardie del corpo, ninnoli
tecnologici, show multicolori. Molti
“amanti traditi” del jazz non gli
hanno perdonato il successo, il
mutamento d’immagine, più che quello
di linguaggio. Ma nonostante il
rapporto conflittuale con
l’establishment mainstream, Davis
restava ancorato disperatamente a
quel retaggio, qualsiasi cosa
facesse.
Dalla sua autobiografia emerge un
carattere ombroso ed egocentrico,
poco incline alle concessioni
(talvolta, in anni remoti, voltava
le spalle al pubblico), vanitoso,
amante degli eccessi. Comunque
anomalo rispetto al mondo cui
apparteneva, perfino nell’estrazione
sociale, visto che proveniva da una
specie tanto rara quanto l’“alta
borghesia nera”.
Ma, come spesso avviene, la distanza
fra musica e vita era parte
integrante del suo immenso fascino.
Che non è, come per molti grandi del
jazz, quello del “detentore di
stile”, che si identifica con una
precisa scuola, ma è piuttosto
quello del “navigatore” alla perenne
ricerca di nuovi continenti
culturali. Il “nero borghese” sapeva
in realtà interpretare il blues come
e meglio del più derelitto degli
emarginati. Perché la sua era
un’arte tutta interiore, tanto
discreta quant’era chiassoso il suo
abbigliamento, un’espressione “in
sordina”, che non a caso segna un
tratto distintivo profondo del suo
stile. Ma la sua tromba non sapeva
solo “tubare”, come in Sketches
of Spain: poteva anche
lanciare le urla disperate di Bitches
Brew, testimonianze improvvise
di un’urgenza espressiva certa,
quasi tangibile. Qualcuno ha scritto
che con Miles Davis morì
definitivamente il jazz, ma
difficilmente un’affermazione
potrebbe essere più approssimativa.
Il jazz, semmai, lo uccise proprio
lui, mezzo secolo fa, sciogliendone
i contenuti nel cosmo immenso delle
musiche possibili, delle musiche del
futuro, dove vivranno di nuovo in
altre forme, in una musica che
combina e sintetizza tanti elementi
diversi, come quella che Davis ha
suonato e sognato per tutta la vita.
Come il jazz, appunto.
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