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Premessa

«Possiamo dire che il jazz è un virus, un virus di libertà, che si è diffuso sulla terra, “infettando” tutto ciò che ha trovato sulla sua strada: il cinema, la poesia, la pittura, la vita stessa». Così il grande Steve Lacy, in un’intervista raccolta molti anni fa dal giornalista Filippo Bianchi.
La critica accademica ha spesso incontrato qualche difficoltà, perfino concettuale, nel collocare il jazz all’interno della storia musicale del Novecento. Forse è un errore di impostazione; più facile collocarlo nella storia del pensiero del Novecento, tante e tali sono state – e continuano a essere – le sue impollinazioni incrociate e influenze reciproche con l’universo circostante, in un’impressionante varietà di orientamenti: il cinema, dai cartoons degli anni Venti fino a Woody Allen; la danza, dal fox trot fino a Carolyn Carlson; la pittura, da Mondrian a Basquiat; la letteratura, da Fitzgerald a Cortazar; la musica accademica, da Stravinskij a Penderecki... Altrettanta varietà si può rintracciare nel suo destinatario sociale, dal pubblico degli scantinati e quello dei teatri d’opera.
Si dice, giustamente, che il jazz sia stato la prima forma d’arte nata in America. Ma non si può dire che il jazz “appartenga” agli americani, come il fado ai portoghesi o la tarantella ai napoletani. È stata infatti la prima forma d’arte statutariamente “cosmopolita”, in cui le varie componenti di immigrati nel Nuovo Mondo traducono in una lingua comune gli influssi di provenienza, ed il primo “luogo di comunicazione” nel quale le varie etnie altrimenti impegnate soprattutto a scannarsi fra loro (polacchi contro italiani, neri contro cinesi, irlandesi contro ispanici, tutti contro tutti) si trovano piuttosto a suonare e creare insieme, che è decisamente preferibile. Multirazziale e multiculturale dalla genesi, il jazz dimostra nella pratica la natura universale della musica. È anche per quest’indole permeabile che, già nei primi decenni di vita, il jazz si è diffuso ad ogni latitudine, pure nelle circostanze più difficili: dall’Unione Sovietica in cui era considerato “arte degenerata” fino al District Six di Città del Capo in cui fu unico antidoto all’apartheid.
Le ragioni per cui l’Unesco ha dichiarato il jazz “patrimonio dell’umanità”, dedicandogli una giornata celebrativa annuale, non sono solo di ordine musicale, ma culturale, sociale, politico, psicologico perfino. In un quadro formativo per le giovani generazioni, riveste particolare importanza la focalizzazione sull’improvvisazione: la più efficace metafora della vita, che è notoriamente improvvisata, non scritta. Ma il jazz è pure metafora dell’intelligenza, che è, fino a prova contraria, corteccia associativa, capacità di tessere relazioni fra le cose: è lavoro intellettuale in azione. Si sa che viviamo nell’epoca dell’informazione, meglio nell’ipertelìa dell’informazione: ci sono tante di quelle informazioni che finiscono per nascondersi una sotto l’altra; prese singolarmente sono trasparenti, ma la sovrapposizione dei loro strati crea un effetto di opacità (il rumore di fondo – com’è noto – impedisce di distinguere i singoli suoni). Mai nella storia dell’umanità c’è stato un tempo con una tale facilità nell’approvvigionamento di informazioni. E tuttavia la ricerca Pisa (Programme for International Student Assessment) ammonisce che nell’ultimo decennio è esponenzialmente diminuita la facoltà di mettere le informazioni in relazione fra loro. Giusto quella facoltà che l’improvvisazione sviluppa, laddove non è tanto importante la quantità di informazioni di cui disponiamo ma l’uso che siamo in grado difarne. Come disse Benny Green a proposito di Armstrong: «Anyone can learn what Louis knows about music in a few weeks. Nobody could learn to play like him in a thousand years» (Chiunque può imparare in poche settimane quel che Louis sa sulla musica. Nessuno potrebbe imparare a suonare come lui in mille anni). Se ne può concludere che l'abilità di improvvisare è una possibile porta del futuro, per chi solo può vederla.

 

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