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"Progetti mirati alla diffusione della musica jazzistica italiana"



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Artisti

Enrico Rava

Enrico Rava (ph.
                                              Angelo Palombini)Enrico Rava, nato a Trieste nel 1939, è indubbiamente il jazzista italiano più noto e apprezzato a livello internazionale. Da sempre impegnato nelle esperienze più diverse e stimolanti, è apparso sulla scena jazzistica a metà degli anni Sessanta, imponendosi rapidamente come uno dei più validi solisti del jazz europeo. La sua schiettezza umana e artistica lo pone al di fuori di ogni schema e ne fa un musicista rigoroso ma incurante delle convenzioni. La sua poetica immediatamente riconoscibile, la sua sonorità lirica e struggente, sempre sorretta da una stupefacente freschezza d’ispirazione, risaltano fortemente in tutte le sue avventure musicali.
In cinquant’anni di carriera, il trombettista,  icornista e compositore ha all’attivo un
centinaio di incisioni. Ispirandosi dapprincipio a Miles Davis e Chet Baker si è avvicinato negli anni Sessanta all’avanguardia (trasferendosi a New York per una decina d’anni), registrando nel 1972 Il giro del giorno in 80 mondi, ed entrando in contatto con Roswell Rudd, Cecil Taylor, Carla Bley e Charlie Haden. Altre sue collaborazioni di riferimento in questo primo periodo sono quelle con Gato Barbieri, Don Cherry, Mal Waldron e Steve Lacy.
Stilisticamente col tempo si distacca dai modi dell’avanguardia per mettere a punto una sorta di personalissimo mainstream. Si susseguono numerose collaborazioni al  anco dei musicisti più prestigiosi, italiani, europei e americani, e la costituzione di gruppi a proprio nome, che hanno sempre avuto il merito di scoprire talenti fuori dell’ordinario (Stefano Bollani, Gianluca Petrella, Roberto Cecchetto). Il suo stile si è stabilizzato in un sistema compatto di moduli diversamente aggregati, con un oscillamento (sempre relativo e interconnesso) fra deja vu davisiani e riverberi bakeriani, e un’inconfondibile vocazione melodica.


Mauro Ottolini

Mauro Ottolini (ph.
                                              roberto Cifarelli)Nato a Bussolengo (VR) nel 1972, il trombonista Mauro Ottolini è uno dei musicisti più importanti del nuovo jazz italiano. Lasciata l’orchestra dell’Arena di Verona per inseguire il suo vero amore, il jazz, si è velocemente imposto come leader fantasioso e sorprendente. Alla sua ascesa hanno contribuito altri grandi musicisti, chiamandolo regolarmente nelle loro formazioni: Enrico Rava, Franco D’Andrea, Gianluca Petrella, Francesco Bearzatti, Daniele D’Agaro e anche il cantautore Vinicio Capossela. Da anni Ottolini esprime il proprio talento eclettico come compositore e come arrangiatore non solo per i progetti a suo nome, ma anche per importanti formazioni jazz, rock, pop e avant-garde. Si è ritagliato un posto al  anco dei big della canzone italiana (Negramaro, Lucio Dalla, Antonella Ruggiero, Vinicio Capossela, Malika Ayane, Roy Paci, Karima, ma pure Luciano Pavarotti).
Oggi suona assiduamente con Franco D’Andrea (trio e sestetto), ma è soprattutto il leader di alcune delle più sorprendenti formazioni della musica creativa italiana, come i Licaones (con Francesco Bearzatti), gli Smashing Triad(s), i Lato Latino, l’orchestra Ottovolante, i Separatisti Bassi e i Sousaphonix, il gruppo che più ha contribuito alla sua fama: con questo ampio organico ha vinto il Top Jazz nel 2012 e ha sfornato una serie di dischi memorabili (The Sky Above Braddock, Bix Factor, Musica per una società senza pensieri, Seven Chances). Il più recente progetto, che vede il nucleo dei Suosaphonix a  anco di un’orchestra sinfonica, è un omaggio alle canzoni di Luigi Tenco: “Tenco: come ti vedono gli altri” è nato su richiesta proprio del Club Tenco, che con esso ha voluto celebrare il 50° anniversario della morte del cantautore. Uscito su disco, è stato uno dei bestsellers del 2017. Al successo eclatante ha contribuito l’impressionante parterre di cantanti convocato da Ottolini: Gino Paoli, Petra Magoni, Daniele Silvestri, Roy Paci, Alberto Fortis, Rossana Casale, Renzo Rubino, Karima, Bocephus King, Edda, Kento, Vanessa Tagliabue Yorke, Vincenzo Vasi, e, nei live, anche Giuliano Sangiorgi.


Tommaso Vittorini

Tommaso VittoriniNato a Roma, ma residente da molti anni a New York, Tommaso Vittorini ha iniziato la carriera giovanissimo, negli anni Settanta, a fianco di Massimo Urbani, Maurizio Giammarco, Enrico Pieranunzi, Danilo Rea, Enrico Rava. Alla fine del decennio il novero delle sue collaborazioni si è esteso a livello internazionale, con personalità quali Lester Bowie, Kenny Wheeler, Roswell Rudd, Steve Lacy. Dotato di fine senso dell’umorismo e di una profonda conoscenza della cultura italiana (forse ereditati dai nonni, Camillo Mastrocinque ed Elio Vittorini), assieme a Mario Schiano inventò una sorta di jazz- varietà che non trova termini di paragone nella storia di questa musica.
Come band leader ha dato vita a numerose formazioni, sia in Italia che negli USA: la Living Concert Big Band, il Grande Elenco Musicisti (con Giancarlo Schiaffini, Antonello Salis, Roberto Gatto, Rita Marcotulli), la Banda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio, la Big O Orchestra, band tutta al femminile basata a New York.
Come arrangiatore ha lavorato con Paolo Conte (per Appunti di Viaggio), Claudio Baglioni, Gianni Morandi, Almamegretta, Vinicio Capossela e, fuori dall’Italia, con Dionne Warwick e Chaka Khan.
Vittorini è attivo anche come direttore di orchestre sinfoniche, nonché in campo cinematografico e televisivo come autore di colonne sonore (per Lina Wertmüller e Roberto Benigni, tra gli altri) e di sigle (TG1, TVSette, TG Sport...) oltre che come attore (Profondo rosso di Dario Argento, Sogni d’oro di Nanni Moretti).



Alien Dee

Alien DeePioniere del beatboxing, Alien Dee (al secolo Davide Giuseppe Di Paola, torinese di nascita, residente a Catania e domiciliato a Roma, classe 1981) ne è tra i principali esponenti a livello internazionale. Perfezionista nello sviluppo della tecnica imitativa degli strumenti, legato all’estetica jazz per quanto riguarda le sonorità e la pratica dell’improvvisazione, Alien Dee ha iniziato a ‘suonare senza strumento’ nel 2001, allenandosi in questa particolare disciplina, sorta all’interno della cultura hip hop per far fronte alla necessità di avere sempre musica a portata di mano quando si tratta di ballare in strada (breakdance) o quando si improvvisano rime (rap). Così, in assenza di strumenti e anche di mezzi per riprodurre musica pre-registrata, il beatboxer utilizza la voce e il proprio corpo per creare ritmi e suoni, in particolar modo imitando il beat delle percussioni e il fraseggio degli strumenti melodici.





Francesco Martinelli

Francesco
                                      MartinelliNato a Pisa nel 1954, Francesco Martinelli è impegnato fin dagli anni Settanta nella diffusione della cultura jazzistica in Italia come organizzatore di concerti, giornalista, saggista e traduttore, insegnante e conferenziere. Ha collaborato negli anni Settanta all’organizzazione delle memorabili Rassegne Internazionali del Jazz di Pisa, e in seguito ha promosso nella sua città concerti e rassegne tra cui La Nuova Onda, l’Instabile’s Festival, An Insolent Noise. Come giornalista ha collaborato a Musiche, Musica Jazz e Il Giornale della Musica; attualmente scrive di musiche tradizionali per la rivista inglese Songlines. Ha pubblicato le discografie di Anthony Braxton, Evan Parker, Joelle Léandre e Mario Schiano. Ha tradotto una decina di libri dall’inglese all’italiano, collaborando con Arcana, Il Saggiatore, EDT e con la pisana ETS per la collana Sonografie la cui più recente uscita è un volume su Albert Ayler. Insegna Storia del Jazz presso l’Istituto Musicale Mascagni di Livorno e la Siena Jazz University; a Siena Jazz dirige anche il Centro Studi sul Jazz “Arrigo Polillo”, la più ampia raccolta di libri, riviste e registrazioni di jazz in Italia. La collana di testi jazzistici creata in collaborazione da EDT e Siena Jazz è da lui diretta. Ha insegnato per diversi anni a Istanbul alla Bilgi University e collabora tuttora con la Fondazione per la Cultura di Smirne per l’organizzazione del Festival del Jazz Europeo e la gestione del museo degli strumenti musicali tradizionali dell’Anatolia.
Ha coordinato il vasto progetto internazionale promosso da Europe Jazz Network che ha portato nel Settembre 2018 alla pubblicazione di “The History of Jazz in Europe” da parte della casa editrice inglese Equinox.


Miles Davis

Miles DavisNonostante il luogo comune critico racconti il contrario, in realtà Miles Davis (Alton, 26 maggio 1926 - Santa Monica, 28 settembre 1991) fu uomo di sintesi, piuttosto che di intuizioni. La sua presenza attraversa la storia del jazz dell’ultimo mezzo secolo senza determinare le grandi svolte del linguaggio, bensì legittimandole e rendendole più compiute, intellegibili, sistematizzate. La nascita del be-bop deve assai di più a Charlie Parker, quella del cool a Gil Evans, quella del jazz-rock a John McLaughlin. A tutti questi fermenti intellettuali, però, Miles dette ordine, ponendo le pietre miliari che chiariscono l’itinerario (Milestones, come titolava un suo disco del 1947). E vi aggiunse il suo “proprio dono”: la parsimonia di note e la capacità di dar significato a ogni singola nota, e a ogni silenzio; la chiarezza del disegno culturale; l’abilità di far vivere nel linguaggio
contemporaneo la poesia arcaica e drammatica del blues; la maestria dell’understatement; la pazienza di scegliere e allevare talenti acerbi. E quanti ne sono sfilati nei suoi gruppi: da Keith Jarrett a Sonny Rollins, da John Coltrane a Herbie Hancock, da Jack DeJohnette a Cannonball Adderley, Chick Corea, Philly Joe Jones, J.J. Johnson, Wayne Shorter, Horace Silver, Bill Evans, Red Garland, Dave Holland, Max Roach, David Liebman (e certamente dall’elenco restano esclusi parecchi capiscuola). Questo, sul piano artistico, è stato Miles Davis: un maestro e un poeta, rispetto alla storia della musica del Novecento, ben oltre il jazz.
Nessun altro musicista è mai stato amato con altrettanta passione, ma con Davis non c’è stata mai indulgenza, forse perché da lui ci si aspettava sempre di più, o comunque qualcos’altro da ciò che in quel momento voleva dare. Gli illustri critici Brian Case e Stan Britt hanno scritto in un’enciclopedia del jazz che “la produzione davisiana successiva a In a silent way (1969) non è degna di interesse per l’appassionato di jazz”. Vero? Può darsi. Il punto è che era assai degna di interesse per il resto del mondo... Ecco, la forza di Miles Davis, in realtà, è stata quella di aver lanciato un ponte fra il ghetto della cultura nero-americana e l’universo circostante, di aver reso accessibile a tutti, senza snaturarne la sostanza, ciò che era fino ad allora ostico, esoterico, elitario. Da questa posizione, che lo ha catapultato nello star system, unico fra i jazzisti del dopoguerra, Davis ha tratto tutti i vantaggi possibili. E per di più li ha ostentati senza alcun pudore: macchine fuoriserie, abiti firmati, guardie del corpo, ninnoli tecnologici, show multicolori. Molti “amanti traditi” del jazz non gli hanno perdonato il successo, il mutamento d’immagine, più che quello di linguaggio. Ma nonostante il rapporto conflittuale con l’establishment mainstream, Davis restava ancorato disperatamente a quel retaggio, qualsiasi cosa facesse.
Dalla sua autobiografia emerge un carattere ombroso ed egocentrico, poco incline alle concessioni (talvolta, in anni remoti, voltava le spalle al pubblico), vanitoso, amante degli eccessi. Comunque anomalo rispetto al mondo cui apparteneva, perfino nell’estrazione sociale, visto che proveniva da una specie tanto rara quanto l’“alta borghesia nera”.
Ma, come spesso avviene, la distanza fra musica e vita era parte integrante del suo immenso fascino. Che non è, come per molti grandi del jazz, quello del “detentore di stile”, che si identifica con una precisa scuola, ma è piuttosto quello del “navigatore” alla perenne ricerca di nuovi continenti culturali. Il “nero borghese” sapeva in realtà interpretare il blues come e meglio del più derelitto degli emarginati. Perché la sua era un’arte tutta interiore, tanto discreta quant’era chiassoso il suo abbigliamento, un’espressione “in sordina”, che non a caso segna un tratto distintivo profondo del suo stile. Ma la sua tromba non sapeva solo “tubare”, come in Sketches of Spain: poteva anche lanciare le urla disperate di Bitches Brew, testimonianze improvvise di un’urgenza espressiva certa, quasi tangibile. Qualcuno ha scritto che con Miles Davis morì definitivamente il jazz, ma difficilmente un’affermazione potrebbe essere più approssimativa. Il jazz, semmai, lo uccise proprio lui, mezzo secolo fa, sciogliendone i contenuti nel cosmo immenso delle musiche possibili, delle musiche del futuro, dove vivranno di nuovo in altre forme, in una musica che combina e sintetizza tanti elementi diversi, come quella che Davis ha suonato e sognato per tutta la vita. Come il jazz, appunto.


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