Progetto
premiato con
Medaglia del Presidente
della Repubblica 2015
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Premessa
«Possiamo
dire che il jazz è un virus, un
virus di libertà, che si è
diffuso sulla terra,
“infettando” tutto ciò che ha
trovato sulla sua strada: il
cinema, la poesia, la pittura,
la vita stessa».
Così il grande Steve Lacy, in
un’intervista raccolta molti anni
fa dal giornalista Filippo
Bianchi. La critica accademica ha
spesso incontrato qualche
difficoltà, perfino concettuale,
nel collocare il jazz all’interno
della storia musicale del
Novecento. Forse è un errore di
impostazione; più facile
collocarlo nella storia del
pensiero del Novecento, tante e
tali sono state – e continuano a
essere – le sue impollinazioni
incrociate e influenze reciproche
con l’universo circostante, in
un’impressionante varietà di
orientamenti: il cinema, dai
cartoons degli anni Venti fino a
Woody Allen; la danza, dal fox
trot fino a Carolyn Carlson; la
pittura, da Mondrian a Basquiat;
la letteratura, da Fitzgerald a
Cortazar; la musica accademica, da
Stravinskij a Penderecki...
Altrettanta varietà si può
rintracciare nel suo destinatario
sociale, dal pubblico degli
scantinati e quello dei teatri
d’opera.
Si
dice, giustamente, che il jazz sia
stato la prima forma d’arte nata
in America. Ma non si può dire
che il jazz “appartenga” agli
americani, come il fado ai
portoghesi o la tarantella ai
napoletani. È stata infatti la
prima forma d’arte statutariamente
“cosmopolita”, in cui le varie
componenti di immigrati nel Nuovo
Mondo traducono in una lingua
comune gli influssi di
provenienza, ed il primo “luogo di
comunicazione” nel quale le varie
etnie altrimenti impegnate
soprattutto a scannarsi fra loro
(polacchi contro italiani, neri
contro cinesi, irlandesi contro
ispanici, tutti contro tutti) si
trovano piuttosto a suonare e
creare insieme, che è decisamente
preferibile. Multirazziale e
multiculturale dalla genesi, il
jazz dimostra nella pratica la
natura universale della musica. È
anche per quest’indole permeabile
che, già nei primi decenni di
vita, il jazz si è diffuso ad
ogni latitudine, pure nelle
circostanze più difficili:
dall’Unione Sovietica in cui era
considerato “arte degenerata” fino
al District Six di Città del Capo
in cui fu unico antidoto
all’apartheid.
Le
ragioni per cui l’Unesco ha
dichiarato il jazz “patrimonio
dell’umanità”, dedicandogli una
giornata celebrativa annuale, non
sono solo di ordine musicale, ma
culturale, sociale, politico,
psicologico perfino. In un quadro
formativo per le giovani
generazioni, riveste particolare
importanza la focalizzazione
sull’improvvisazione: la più
efficace metafora della vita, che
è notoriamente improvvisata, non
scritta. Ma il jazz è pure
metafora dell’intelligenza, che
è, fino a prova contraria,
corteccia associativa, capacità
di tessere relazioni fra le cose:
è lavoro intellettuale in azione.
Si sa che viviamo nell’epoca
dell’informazione, meglio
nell’ipertelìa dell’informazione:
ci sono tante di quelle
informazioni che finiscono per
nascondersi una sotto l’altra;
prese singolarmente sono
trasparenti, ma la sovrapposizione
dei loro strati crea un effetto di
opacità (il rumore di fondo –
com’è noto – impedisce di
distinguere i singoli suoni). Mai
nella storia dell’umanità c’è
stato un tempo con una tale
facilità nell’approvvigionamento
di informazioni. E tuttavia la
ricerca PISA (Programme for
International Student Assessment)
ammonisce che nell’ultimo decennio
è esponenzialmente diminuita la
facoltà di mettere le
informazioni in relazione fra
loro. Giusto quella facoltà che
l’improvvisazione sviluppa,
laddove non è tanto importante la
quantità di informazioni di cui
disponiamo ma l’uso che siamo in
grado di farne. Come disse Benny
Green a proposito di Armstrong: «Anyone
can learn what Louis knows about
music in a few weeks. Nobody
could learn to play like him in
a thousand years»
(Chiunque può imparare in poche
settimane quel che Louis sa sulla
musica. Nessuno potrebbe imparare
a suonare come lui in mille anni).
Se ne può concludere che
l’abilità di improvvisare è una
possibile porta del futuro, per
chi solo può vederla.
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